HORTUS CONCLUSUS BY FRANCO RENZULLI

Venezia

Un giorno, sei anni fa, passeggiando lungo le Zattere vicino alla Salute, incontrai Franco e – come al solito – ci fermammo a parlare per un po’. Gli domandai dove fosse diretto, e lui mi rispose:

“Hai un po’ di tempo, vuoi venire a vedere il mio studio? È proprio qui vicino, e il suo portone è fantastico! “.

“Benissimo.”

Non avevo la minima idea di dove stessimo andando, ma mentre camminavamo sulle Zattere, prima di entrare in un sotoportego, mi guardai alle spalle e vidi casa De Maria, alla Giudecca, conosciuta da tutti i Veneziani come Casa dei Tre Oci.

Ancora un po’ di passi ed ecco che, come un guardiano severo, mi apparve un portone di legno, con molte mani di vernice sovrapposte e ormai scrostate dal tempo.

Lucchetti, catenacci e serrature che sorvegliavano un universo, a me allora sconosciuto. E tanti, tanti chiodi, messi a sporgere tanto tempo fa, per impedirvi il rifugiarsi notturno degli amanti.

Franco tolse i due lucchetti e, mentre dava sei lunghissimi giri di chiave, la mia curiosità era già alle stelle.

Ancor prima di aver oltrepassato il severo guardiano di legno sentivo il profumo che emanava dall’interno, come un segreto giardino fiorito, odori di colori, pigmenti, solventi e matite; quadri, immagini, disegni, incisioni, documenti, fotografie. E il profumo dell’Africa, della Francia, dell’Austria... e quelli di Copenaghen, New York e Venezia.

Oltrepassando il vecchio guardiano di legno ebbi l’impressione di varcare il confine della realtà.

A luci ancora spente i miei sensi rimasero catturati e storditi, ma quando si accese la luce il mio sguardo si è perso nello spazio come quello d’una farfalla in volo, andava su e giù dai soppalchi, percorreva quelle che lui chiama Piazze per poi lasciarsi guidare dalla luce che sprigionavano i dipinti, posarsi sulla tavolozza dei colori, e infine riposare.

Finalmente ero nello studio di Franco Renzulli.

Qui, ogni piccolo particolare sprigiona una storia. E mi dà subito l’impressione di essere dentro ad un grandissimo patchwork, con tutti i suoi singoli pezzi raccolti nelle sue passeggiate tra i mondi... e che qui trovano un senso. Come in un suo dipinto i diversi gesti, strutture e colori diventano un’armonia. Per me, lo studio di Franco è come un suo dipinto: ci si perde nei dettagli e ci si naviga nell’ infinito.

Nel corso degli anni tornai un paio di volte a riguardare quel suo portone...

A novembre del 2010, R.R mi propose di curare una mostra per Franco Renzulli ed io, piena d’emozione, proposi di realizzarla nel suo studio. Tu, provaci – mi rispose – ma non accetterà mai.

Ritornai, ma questa volta i lucchetti e i catenacci non c’erano. Da questo capii che Franco era già dentro, e, piena d’incertezza, suonai il campanello.

Lentamente il portone si apri, e il severo guardiano mi permise di entrare ancora una volta. Renzulli mi fece sedere in “Piazza Veronica Franco”. Velocemente e con il cuore a mille, fissandolo negli occhi, gli chiesi se voleva fare la mostra qui, nel suo studio. In una frazione di secondo ha risposto di sì. Sgranai gli occhi, lo guardai sorpresa e, incredula, gli domandai: Ma, sei sicuro? Certo, mi rispose. E perché? Perché sei tu che me lo hai chiesto. L’occhio è parte di un linguaggio, e io mi fido del tuo occhio.

 

A quel punto feci andare il mio sguardo lungo i piccoli dettagli di questo giardino, e da quel giro nacquero delle piccole domande, cui Franco rispose con grande spontaneità e laconica precisione.

Come sei arrivato in questo posto?

Prima avevo lo studio nella Casa dei Tre Oci, che era stata lasciata in testamento ai pittori dalla proprietaria. Nel ’92 siamo stati sfrattati dal marito. Ero l’ultimo abitante e quando Bobo Ferruzzi mi disse che aveva trovato questo posto, avevo ormai già inscatolato tutto ed accettai.

Tutte le cose erano cambiate.

Questo posto sprigiona creatività, hai lavori e ricordi ovunque. Cos’è per te il tuo studio, come lo vivi?

Un amico con cui si può parlare in silenzio.

Perché hai suddiviso lo studio in piazze, perché i nomi?

È diventato un angolo, un quartiere, una parte di Venezia. Per esempio “Piazza Tino” si chiama così perché Tino Zago si metteva a lavorare in quell’angolo. “Piazza Caravaggio” perché Caravaggio dormiva lì, e “Piazza Veronica Franco” perché è qui che passo la maggior parte del tempo... è il posto più grande.

Ci sono molte fotografie di Rene Brò e Hundertwasser. Come li hai conosciuti, e che rapporto avevate; e poi, in che modo, secondo te, hanno influenzato la tua vita, la tua pittura?

Nessuna influenza quando le cose sono fatte bene. Ma non si parlava tanto di pittura. Non mi piaceva tanto andare da Hundertwasser. Il suo risotto d’ortica non mi piaceva – e so che anche Brò preferiva la mia cucina. Eravamo in tanti amici ma con loro è stata più convivenza. Abbiamo passato più tempo insieme ai Tre Oci.

Qual è, in questo tuo universo, l’opera o il posto a cui tieni di più?

Il letto, perché dormo. È il territorio più libero dell’uomo.

Quale sensazione vorresti che avesse, una volta uscito, chi è venuto nel tuo studio?

Sono affari suoi, che ognuno faccia l’esame con sé stesso.

Grazie, Franco.

Daniella P. Bacigalupo. 14 luglio 2011